di Ugo VILLANI (Ordinario nell'Università LUISS “G. Carli” di Roma)
1.
L’ordinamento giuridico delle Comunità e dell’Unione Europea è
riconducibile ad una pluralità di fonti. Prescindendo da un’analisi di
quelle concernenti il secondo e il terzo pilastro dell’Unione, oggetto
di specifiche relazioni in questo Convegno, e concentrando il nostro
esame sulla Comunità europea, notiamo che in posizione primaria si
pongono il Trattato di Roma del 25 marzo 1957 istitutivo della Comunità e
quelli successivi che lo hanno via via modificato. Sullo stesso piano
si collocano i protocolli allegati al Trattato, i quali ne costituiscono
parte integrante (art. 311), e le norme contenute negli accordi e negli
atti di adesione dei nuovi membri. Valore essenzialmente interpretativo
hanno, invece, le dichiarazioni (degli Stati parti o delle istituzioni)
allegate ai Trattati.
Il Trattato CE, pur essendo, formalmente, un
accordo internazionale, è frequentemente qualificato dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia quale “carta costituzionale”
della Comunità europea, intesa, quest’ultima, come una comunità di
diritto, nella quale né gli Stati che ne fanno parte, né le sue
istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti a
tale carta costituzionale. Il carattere “costituzionale”, che coesiste
con quello giuridico-formale di accordo internazionale, pur essendo
generalmente riconosciuto per gli accordi istitutivi di organizzazioni
internazionali, è particolarmente accentuato per il Trattato CE, poiché
esso – come la Corte di giustizia ha sottolineato sin dalla celebre
sentenza del 5 febbraio 1963, causa 26/62, Van Gend en Loos – ha dato
vita a un ente sopranazionale, a favore del quale gli Stati membri hanno
rinunciato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani e il
cui ordinamento riconosce come soggetti non solo gli Stati membri, ma
anche i loro cittadini.
Tale configurazione del Trattato CE non ha
una rilevanza meramente teorica, ma si riflette, in particolare, sulle
regole interpretative dello stesso. Com’è noto, nella giurisprudenza
comunitaria si è imposta un’interpretazione assai ampia in merito ai
poteri della Comunità; essa ha dato luogo alla teoria dei poteri
impliciti, in base alla quale la Comunità e le sue istituzioni devono
ritenersi provviste non solo dei poteri espressamente previsti dal
Trattato, ma anche di quei poteri ulteriori, che siano necessari per
esercitare nella maniera più efficace i poteri espressi o per realizzare
compiutamente i fini della Comunità. Si deve aggiungere che la Corte di
giustizia ha affermato anche un metodo storico, o evolutivo,
d’interpretazione, dichiarando che le norme comunitarie vanno
interpretate tenendo conto dello stadio di evoluzione del diritto
comunitario.
L’aspetto, peraltro, più significativo del Trattato CE,
nel quale si manifesta quel carattere di sopranazionalità che
contraddistingue il fenomeno dell’integrazione europea, concerne
l’idoneità delle disposizioni in esso contenute ad attribuire
direttamente agli individui (persone fisiche e giuridiche) obblighi e
diritti soggettivi. Tale efficacia diretta delle norme del Trattato –
aventi un contenuto chiaro, preciso e incondizionato – implica che gli
individui possano esercitare i diritti da esse derivanti nell’ambito
dell’ordinamento degli Stati membri e, se necessario, dinanzi ai giudici
di questi Stati. Si noti che l’efficacia diretta delle disposizioni del
Trattato non si limita ai rapporti, c.d. verticali, tra i singoli e gli
Stati membri, o altri enti pubblici, ma investe anche i rapporti,
orizzontali, tra privati, come, per esempio, i rapporti di lavoro, nei
quali la Corte di giustizia ha più volte riconosciuto la diretta
invocabilità, da parte dei lavoratori, del diritto a non subire
discriminazioni fondate sulla nazionalità o sul sesso (e attribuendo al
datore di lavoro privato il corrispondente obbligo).
2. Un
elemento che caratterizza le Comunità sopranazionali risiede
nell’attribuzione alle istituzioni europee di una potestà “legislativa”,
la quale si esprime con l’emanazione di regolamenti, direttive,
decisioni, che costituiscono il diritto comunitario derivato (o
secondario). Tali fonti, previste espressamente nel Trattato CE (art.
249), si pongono in posizione gerarchicamente subordinata rispetto allo
stesso Trattato, come risulta chiaramente dall’art. 230, 2° comma, il
quale contempla tra le cause d’invalidità degli atti comunitari,
suscettibili di determinarne l’annullamento, “la violazione del presente
Trattato”.
Se tale rapporto di superiorità fra il Trattato CE e le
fonti di diritto comunitario derivato è fuori discussione, meno nitido è
il quadro generale del sistema delle fonti comunitarie. Anzitutto non
esiste alcuna gerarchia tra le fonti di diritto derivato (salvo il caso
di atto esecutivo di un altro, al quale è subordinato), per cui esse si
pongono sullo stesso piano, sia che costituiscano atti di portata
generale, di natura più propriamente normativa, i regolamenti, sia che
si tratti di atti diretti a specifici destinatari, come le decisioni,
assimilabili ai provvedimenti amministrativi del diritto nazionale.
Parimenti il Trattato CE non consente di operare alcuna distinzione,
quanto alla loro forza giuridica, tra atti adottati con procedimenti più
complessi e “democratici”, come la codecisione, ed atti nei quali il
potere di decisione si concentra nelle mani del Consiglio, avendo il
Parlamento europeo un ruolo meramente consultivo. Resta poi da definire
non solo la collocazione nel sistema comunitario, ma anche il valore
giuridico di una vasta gamma di atti “atipici”, talvolta previsti dallo
stesso Trattato CE, altre volte nati nella prassi.
In secondo luogo,
il sistema del diritto comunitario comprende una serie di ulteriori
fonti, quali gli accordi conclusi dalla Comunità con Stati terzi o
organizzazioni internazionali, il diritto internazionale generale e i
principi generali del diritto comunitario, il cui rango,
nell’ordinamento comunitario, non è sempre agevolmente definibile. Ciò
va detto, in particolare, per i principi generali, frutto essenzialmente
della giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale, peraltro, non
mostra di ritenere necessario precisarne l’esatta collocazione, in
specie nei riguardi del Trattato CE.
Prescindendo – per economia del
discorso – dalle norme poste in accordi o contenute nel diritto
internazionale generale, notiamo che un ruolo estremamente fecondo
svolgono nel diritto comunitario i principi generali. Essi hanno natura e
origine alquanto eterogenea. Talvolta sono il risultato di una
riflessione che la Corte svolge sui caratteri dell’ordinamento
comunitario, come l’efficacia diretta, o il primato del diritto
comunitario su quello nazionale. Altre volte la Corte li ricava da
disposizioni scritte del Trattato, viste peraltro quali espressione di
un principio di più vasta portata, come quello di leale cooperazione,
sancito dall’art. 10 a carico degli Stati membri, ma applicato anche nei
rapporti interistituzionali e configurato persino quale obbligo delle
istituzioni a vantaggio degli Stati membri. In altri casi la Corte
giunge ad enunciare dei principi generali a seguito di un raffronto tra
gli ordinamenti degli Stati membri: per questa via, com’è noto, sono
entrati a fare parte del diritto comunitario i diritti umani
fondamentali. Né mancano esempi importanti di principi generali, come la
certezza del diritto o il legittimo affidamento, che trovano la loro
origine nella logica giuridica o in esigenze di giustizia sostanziale.
I
principi generali integrano e completano il sistema giuridico
comunitario, operando nei confronti sia degli Stati membri che delle
istituzioni della Comunità, le quali sono tenute a rispettarli nello
svolgimento delle loro attività, con conseguente invalidità di atti
emanati in loro violazione. Ma i suddetti principi possono adempiere
anche un’importante funzione interpretativa rispetto alle altre norme
comunitarie. Sotto questo profilo emerge il ruolo propulsivo del diritto
comunitario svolto particolarmente dal principio dell’effetto utile,
secondo il quale ogni norma deve essere interpretata in modo da
raggiungere nella maniera più efficace il proprio obiettivo. La Corte ne
ha fatto applicazione in molteplici direzioni, per esempio per
giustificare (a certe condizioni) l’efficacia diretta delle direttive, a
sostegno del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, in
tema di libertà di circolazione delle persone, estendendo ad una mamma
cinese il diritto di soggiorno al fine di garantire l’effetto utile
delle norme sulla cittadinanza europea, che riconoscevano tale diritto
alla figlia, in tenera età, cittadina europea (sentenza del 19 ottobre
2004, C-200/02, Chen).
3. Nel diritto comunitario derivato si
manifesta quella potestà legislativa che costituisce – come si è
ricordato – un dato caratterizzante e precipuo delle comunità
sopranazionali. È nell’esercizio di tale potestà che le istituzioni
“legiferano” direttamente nei riguardi delle persone fisiche e
giuridiche, in particolare mediante l’emanazione di atti che, sebbene
non denominati “leggi” (forse per la diffidenza di alcuni Paesi membri
nei confronti di una terminologia ritenuta politicamente troppo
impegnativa), ne hanno, come i regolamenti, tutte le caratteristiche.
Non
è ovviamente il caso, in questa sede, di soffermarsi sui differenti
caratteri degli atti comunitari obbligatori. Vale la pena, piuttosto, di
ricordare come, grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, la
diretta applicabilità, che l’art. 249 attribuisce espressamente ai soli
regolamenti e che manifesta nella maniera più nitida la suddetta
potestà legislativa, sia stata estesa, a certe condizioni, alle
direttive. Qualora esse presentino un contenuto obbligatorio chiaro,
preciso e incondizionato, se il termine entro il quale eseguirle sia
scaduto e se siano dirette ad attribuire un diritto ai singoli, questi
possono esercitare il diritto in questione, agendo in via giudiziaria
contro lo Stato inadempiente. In tale giurisprudenza l’efficacia diretta
delle direttive si giustifica, da un lato, come una forma di tutela del
singolo di fronte allo Stato, il cui inadempimento lo priverebbe del
godimento dei diritti nascenti dalla direttiva, e, dall’altro, come
sanzione nei riguardi dello Stato inadempiente. Questa ratio, per altro
verso, definisce anche i limiti della efficacia diretta delle direttive.
Posto che essa rappresenta una reazione all’inadempimento dello Stato,
le direttive possono essere invocate dal singolo soltanto contro lo
Stato (efficacia “verticale” unilaterale), non anche nei confronti di un
privato, al quale le direttive, prive di un atto statale di esecuzione,
non impongono alcun obbligo e al quale, pertanto, non può imputarsi
alcun inadempimento.
Sebbene logicamente giustificata, l’esclusione
di un’efficacia diretta “orizzontale”, cioè nelle relazioni tra privati,
non è priva di inconvenienti. Essa, infatti, determina una
discriminazione tra individui a seconda che la controparte sia lo Stato o
un altro privato (si pensi, per esempio, al diverso trattamento nel
campo del pubblico impiego e nel rapporto di lavoro privato). La stessa
Corte di giustizia, pur restando fedele alla limitazione ai soli
rapporti verticali della efficacia diretta delle direttive, ha tentato
in vari modi di ampliare tale efficacia e di evitare le suddette
situazioni discriminatorie. Anzitutto essa ha accolto una nozione
estremamente ampia di Stato, comprendendovi qualsiasi ente pubblico, per
esempio un comune. Ancor più rilevante è l’affermazione secondo la
quale, pur se la direttiva non sia stata attuata nel diritto nazionale,
quest’ultimo deve essere interpretato in maniera conforme al contenuto
della direttiva. Tale obbligo di interpretazione conforme è giustificato
dalla Corte, per un verso, in base all’obbligo degli Stati membri di
conseguire il risultato prescritto dalla direttiva; per altro verso, per
il dovere, risultante dall’art. 10 del Trattato CE, di adottare tutti i
provvedimenti necessari per garantire il suddetto obbligo, che grava
anche sugli organi giudiziari degli Stati membri (sentenza del 13
novembre 1990, C-106/89, Marleasing). L’interpretazione del diritto
interno (anteriore o successivo) in maniera conforme alla direttiva ha
la conseguenza che il diritto interno viene “piegato” (nei limiti,
peraltro, nei quali ciò sia possibile) in modo da adattarlo al contenuto
della direttiva. Quest’ultima, quindi, anche se non formalmente attuata
da uno Stato membro, finisce per trovare applicazione in tale Stato,
per il tramite del diritto statale “adeguato” alla prescrizioni della
direttiva dall’opera interpretativa del giudice.
Come si è accennato,
l’interpretazione conforme incontra un limite: essa non può stravolgere
una legge interna che sia palesemente in contrasto con la direttiva, né
può utilizzarsi ove manchi del tutto una legislazione nazionale
relativa alla materia regolata dalla direttiva. Tuttavia, entro tale
limite, l’obbligo di interpretazione conforme rappresenta un utile
rimedio contro gli inadempimenti statali, poiché consente, di fatto,
alla direttiva di operare anche nei rapporti “orizzontali” tra privati,
dato che, formalmente, è la legge statale che viene applicata.
4.
Gli sviluppi più recenti concernenti il quadro normativo europeo sono
legati al Trattato di Roma del 29 ottobre 2004 che adotta una
Costituzione per l’Europa e a talune pronunce della Corte di giustizia,
che appaiono, in un certo senso, anticipatrici di innovazioni contenute
in detto Trattato.
Un primo elemento di novità della “Costituzione
europea” consiste nella stessa abolizione della distinzione fra i tre
“pilastri” dell’Unione europea. A parte la disciplina speciale che,
anche sul piano degli atti adottabili, permane per la politica estera e
della sicurezza comune, tale abolizione comporta l’unificazione degli
atti normativi, secondo modelli desunti dal diritto comunitario che si
estendono così alla materia della cooperazione di polizia e giudiziaria
penale.
Peraltro l’innovazione più profonda risultante dalla
Costituzione europea consiste nel riordino degli atti giuridici
dell’Unione europea, con l’espressa previsione di atti legislativi e la
prefigurazione di un sistema gerarchico fra tali atti. In questo quadro
emerge la distinzione fra atti legislativi, la legge europea e la legge
quadro europea, e quelli non legislativi, regolamenti europei e
decisioni europee (art. I-33). La distinzione non è fine a se stessa,
poiché comporta l’applicazione agli atti legislativi europei della
procedura di codecisione (art. I-34), considerata quale “procedura
legislativa ordinaria”. Ciò consente di individuare precisamente, tra
gli atti giuridici dell’Unione, quelli per i quali, in ragione, appunto,
della loro natura legislativa, i principi della democrazia richiedono
una partecipazione ineludibile e decisiva alla loro adozione del
Parlamento, quale istituzione direttamente rappresentativa del “popolo
europeo”. L’importanza della previsione di atti esplicitamente
legislativi è accresciuta dalla presenza di numerose disposizioni della
Costituzione europea che pongono una riserva di legge (o legge quadro),
stabilendo che le materie in esse contemplate vanno regolate con un atto
di tale natura. Così i poteri decisionali del Parlamento europeo
vengono garantiti rispetto non solo al carattere formale della legge o
legge quadro, ma anche al contenuto materiale delle stesse, che, per
tale via, non può essere sottratto a tali poteri.
5. Gli sviluppi
giurisprudenziali sono dovuti essenzialmente alla sentenza della Corte
del 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino; sebbene meriti di essere ricordata
anche la sentenza del 27 febbraio 2007, C-354/04 P, Gestoras Pro
Amnistía e altri c. Consiglio, la quale ha ridefinito la nozione di
posizione comune, nell’ambito del terzo pilastro, affermando che essa
non è produttiva di effetti giuridici nei confronti di terzi e, qualora
preveda tali effetti, ricade nella propria competenza a titolo
pregiudiziale ai sensi dell’art. 35, par. 1, del Trattato UE.
Tornando
alla sentenza Pupino, essa sembra rientrare nel filone delle “grandi
sentenze” che hanno segnato lo ius praetorium prodotto dalla Corte di
giustizia. Con essa, infatti, la Corte estende alle decisioni-quadro,
emanate in materia di cooperazione di polizia e giudiziaria penale,
l’obbligo di interpretazione conforme da parte dei giudici nazionali. La
Corte respinge l’argomento, sollevato dai governi italiano e del Regno
Unito, per il quale il Trattato UE non comporta alcun obbligo di leale
cooperazione analogo a quello previsto dall’art. 10 del Trattato CE, sul
quale la giurisprudenza comunitaria ha fondato l’obbligo di
interpretazione conforme. A suo giudizio sarebbe difficile per l’Unione
adempiere efficacemente la sua missione di organizzare in modo coerente e
solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli se il
principio di leale cooperazione non si imponesse anche nell’ambito della
cooperazione di polizia e giudiziaria penale, che è del resto
interamente fondata sulla cooperazione tra gli Stati membri e le
istituzioni. Secondo la Corte, pertanto, il principio
dell’interpretazione conforme si impone riguardo alle decisioni-quadro
adottate nell’ambito del titolo VI del Trattato UE; di conseguenza il
giudice nazionale, applicando il proprio diritto, deve interpretarlo,
per quanto possibile, alla luce della lettera e dello scopo della
decisione-quadro, pur se non eseguita nel proprio ordinamento, al fine
di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così
all’art. 34, par. 2, lett. b, del Trattato UE.
La sentenza è
profondamente innovativa, nella misura in cui estende al terzo pilastro
un principio, quello dell’interpretazione conforme, nato e consolidatosi
in base ad una disposizione, l’art. 10 del Trattato CE, estraneo alla
materia del terzo pilastro. Ma – come si accennava – essa appare anche
anticipatrice rispetto alla Costituzione europea, poiché applica alla
cooperazione di polizia e giudiziaria penale un principio appartenente
all’acquis comunitario, così anticipando, appunto, l’unificazione tra i
pilastri prevista dalla Costituzione europea.
Il nuovo indirizzo
giurisprudenziale si è rapidamente consolidato, incontrando una piena e
coraggiosa adesione da parte delle Sezioni unite della nostra Cassazione
penale. Nella sentenza del 5 febbraio 2007 n. 4614, modificando un
precedente orientamento la Corte di cassazione, muovendo, appunto,
dall’obbligo di interpretazione conforme rispetto alle decisioni-quadro
emanate in base al titolo VI del Trattato UE, ha adottato
un’interpretazione evolutiva (se non … modificativa) dell’art. 18, lett.
e) della legge 22 aprile 2005 n. 69, di esecuzione della
decisione-quadro del 13 giugno 2002 sul mandato di arresto europeo, che
stabilisce quale condizione ostativa alla consegna l’ipotesi in cui la
legislazione dello Stato membro di emissione non prevede i limiti
massimi della carcerazione preventiva (condizione assente nella
decisione-quadro).
La Corte ha affermato che, ai sensi di tale
articolo, interpretato in conformità delle finalità della
decisione-quadro, l’autorità giudiziaria italiana deve verificare, ai
fini della consegna, non solo se nella legislazione dello Stato di
emissione sia previsto un termine di durata della custodia cautelare, ma
anche se un limite temporale implicito sia comunque desumibile da altri
meccanismi processuali che instaurino, obbligatoriamente e con cadenze
predeterminate, un controllo giurisdizionale funzionale alla legittima
prosecuzione della custodia cautelare o, in alternativa, alla estinzione
della stessa.
La richiesta di consegna va accolta anche in questa
seconda ipotesi, sebbene non espressamente contemplata dall’art. 18,
lett. e) della legge italiana, ma considerata dalla Corte di Cassazione
ricompresa in tale disposizione, interpretata in maniera conforme alle
finalità della decisione-quadro.