di Susanna CAFARO (Associato nell’Università del Salento)
La
competenza della Comunità europea in materia di politica monetaria è
istituita solo nel 1992, con il Trattato di Maastricht. Tuttavia, essa
riflette un’esigenza che percorre sottotraccia l’intero processo di
integrazione europea, spiega i propri effetti su numerose altre
politiche e ha dato luogo ad una serie di ulteriori spill over. La
celebrazione dei cinquant’anni dal Trattato di Roma offre l’occasione
per ripercorrere il cammino che ha condotto all’adozione della moneta
unica a partire dalle difficoltà dei primi decenni del processo di
integrazione europea fino alla svolta degli anni Novanta: un’evoluzione
importante che ha condotto l’Europa comunitaria a risolvere
autonomamente i problemi di instabilità del cambio e a sentire sempre
più l’esigenza di un reale coordinamento delle politiche economiche.
Già
nel 1957 due articoli del Trattato CEE dimostrano come l’esigenza di
stabilità monetaria sia ben presente ai padri fondatori della Comunità:
l’art.103, a norma del qua-le la politica di congiuntura è considerata
“questione di interesse comune” e l’art.107, per il quale anche la
politica in materia di tasso di cambio è “problema di interesse comune”.
E, difatti, in un mercato integrato in cui i fattori della
produzione circolano liberamente, la stabilità monetaria è
precondizione.
Tuttavia, se è problema di interesse comune, è
problema senza soluzione nel Trattato. Perché negli anni Cinquanta e
Sessanta la soluzione è altrove. Gli accordi di Bretton Woods,
istitutivi del gold exchange standard, già garantiscono la stabilità
monetaria necessaria: le valute comunitarie possono discostarsi al
massimo dello 0,75 per cento dalla divisa statunitense a sua volta
ancorata all’oro, dunque non possono oscillare tra loro oltre l’1,5%.
Sebbene
altre disposizioni prevedano l’intervento in caso di crisi della
bilancia dei pagamenti (artt. 108-109), tutti i primi commentatori sono
concordi nel ritenere deboli e inadeguate le disposizioni del Trattato.
La povertà degli strumenti di intervento in materia di politica
economica e monetaria fa dire a Dominique Carreau che il TCE è scritto
“per un futuro felice” (D. Carreau Rev. Trim. dr. eur., 1971, p. 592).
Sappiamo
che il futuro non sarebbe stato così felice, la crisi si manifesta sin
dal 1968, con un vistoso incremento dell’inflazione e della
disoccupazione, e culmina nel 1971 con la fine del sistema di Bretton
Woods, conseguente alla sospensione della convertibilità del dollaro in
oro e alla connessa svalutazione della divisa americana.
In Europa le
proposte di approfondimento dell’integrazione economica e monetaria si
susseguono e si accavallano: già dal 1962 il Comitato monetario chiede
che si colmi la lacuna del Trattato; nel 1969 la Commissione propone il
primo Piano Barre, seguito dal secondo l’anno seguente, per rafforzare
il coordinamento delle politiche economiche e la solidarietà tra Stati
membri; nel 1970 il Consiglio approva il Piano Werner- dal nome del
Presidente e Ministro delle finanze lussemburghese – un vero progetto di
unificazione monetaria destinato a condurre l’Europa comunitaria alla
valuta unica entro il 1980 (in GUCE C 94 del 23 luglio 1970).
Il
tallone di Achille del Progetto Werner, per alcuni versi più avanzato di
quello successivamente inscritto nel Trattato di Maastricht (arriva
infatti a prevedere una politica congiunturale comune, l’armonizzazione
fiscale ed elementi di politica di bilancio), è nella sua veste
giuridica: una risoluzione non vincolante, a cui sarebbe seguita, di
tappa in tappa, l’adozione del diritto derivato necessario (risoluzione
del Consiglio e dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri del 22
marzo 1971 concernente la realizzazione per tappe dell’Unione economica
e monetaria, in GUCE C 28 del 27 marzo 1971). Con il primo shock
petrolifero, nel 1973, i Paesi membri rinunciano all’obiettivo
preferendo reagire attraverso gli strumenti di politica economica
nazionale.
Sul versante della politica di cambio, al naufragio del
sistema di Bretton Woods, i Paesi CEE rispondono con il varo del
Serpente monetario nel 1972. Questo si inscrive all’interno della
soluzione data, nel dicembre 1971, al problema dei cambi a livello
mondiale attraverso gli accordi smithsoniani che fissano ampie bande di
oscillazione. Gli Stati europei si accordano, infatti, per definire una
banda di oscillazione più stretta tra le loro monete, che rimane in
vigore anche quando, nel 1973, il dollaro è costretto a una nuova
svalutazione.
Una soluzione più matura data dal 1978, anno di
istituzione del Sistema monetario europeo. Quest’ultimo presenta il
vantaggio di una maggiore stabilità e imparzialità tra le valute
partecipanti grazie alla creazione della moneta paniere ECU, ancora e
indicatore del sistema.
È solo nel 1989, quando anche lo SME comincia
a presentare segni di cedimento, che vede la luce un nuovo progetto di
unione economica e monetaria.
Le motivazioni sono così tante che
riesce difficile elencarle tutte: oltre alla crisi dello SME vi sono
infatti ragioni interne alla logica del sistema comunitario e ragioni
esterne, di rilevanza epocale.
Partendo dalle prime, bisogna
segnalare il completamento del mercato interno rilanciato dall’Atto
Unico nel 1987 e, conseguentemente, della libera circolazione dei
capitali – l’ultima delle quattro libertà ancora incompiuta – che si
inaugura solo con la Direttiva 88/361. Il mercato interno sarebbe
infatti incompleto se continuassero a gravare sugli operatori economici
il costo e il rischio del cambio. La circolazione dei capitali, ponendo
gli Stati nell’impossibilità di controllare la massa di capitale
circolante a livello nazionale, genera l’esigenza di recuperare
controllo e gestione della politica monetaria a livello sovranazionale.
Le
ragioni esterne sono geopolitiche: con la fine dell’ordine bipolare e
l’unificazione delle due Germanie, cambiano gli equilibri sia interni
sia internazionali. La circostanza sembra promettere un ruolo politico
di primo piano alla Comunità sullo scenario globale, a condizione che
questa riesca a serrare i ranghi e a conseguire una maggiore
integrazione politica, di cui la valuta può essere strumento. La
Germania unificata diventa il Paese comunitario di maggior peso ed è
già, di gran lunga, il Paese che detiene la valuta di maggior influenza:
la moneta unica rende la nuova statura tedesca meno minacciosa agli
occhi dei partner. Come contropartita la Germania chiede – e ottiene –
che la nuova valuta presenti molte delle caratteristiche del marco.
Chiede ancora di collocare la sede della costituenda Banca centrale
europea a Francoforte e pretende, nel 1997, che si adotti il Patto di
Stabilità e di crescita, i cui contorni saranno tuttavia fortemente
attenuati (denominazione che indica complessivamente due regolamenti
comunitari, nn. 1466/97 e 1467/97, in GUCE L 209 del 2 agosto 1997 e una
Risoluzione adottata dal Consiglio europeo di Amsterdam del giugno
1997, pubblicata in GUCE C 236 del 2 agosto 1997).
A spiegare la
svolta, vi è anche il dinamismo della Commissione e del suo presidente
Jacques Delors che del progetto si fa ardente promotore, coinvolgendo e
portando sulla propria posizione i governatori di undici banche centrali
nazionali, con l’eccezione del governatore britannico. La differenza
principale tra il nuovo accordo e il precedente piano Werner è nel
vincolo, per trattato, a portare a compimento l’obiettivo.
I
caratteri dell’unione economica e monetaria come delineata nel Trattato
di Maastricht sono noti: i) la perfetta unificazione monetaria, per
tappe, che implica la realizzazione di una moneta e di una banca
centrale unica, ii) il processo di convergenza delle politiche
economiche e nazionali che comporta, per l’adesione all’ultima fase
dell’UEM, il rispetto di parametri economici e finanziari; iii) il
conseguente status derogatorio di quei Paesi che non rispettano (ancora)
le condizioni richieste.
Su quest’impianto si sovrappone, in
chiusura di negoziati, l’opting out del Regno Unito, che sin dal
principio ha osteggiato il progetto, a cui seguirà – per fallimento del
referendum danese di ratifica – il secondo opting out. Ambigua rimane la
posizione svedese – Paese con deroga per scelta – che dimostra come non
sia realmente possibile vincolare un Paese all’Unione monetaria.
La
storia recente è nota: la Grecia entrerà poco dopo nel club dell’euro o
“eurozona” mentre i successivi allargamenti infoltiranno il gruppo dei
Paesi con deroga.
L’unione monetaria rimane purtroppo carente nella
sua proiezione esterna: nelle istituzioni finanziarie internazionali
sono ancora i singoli Stati membri la “voce” dell’Euro.
Ma la vicenda
non è conclusa: la creazione dell’unione monetaria porta con se
implicazioni forti sotto il profilo della politica economica.
L’approccio accolto dal Trattato di Maastricht, quello del parallelismo
tra unione economica e monetaria è di fatto più dichiarato che reale:
all’integrazione monetaria fa infatti da pendant un assetto fortemente
intergovernativo della politica economica, fondato su un sistema di
vincoli alla libertà di manovra degli Stati (tra cui spicca il divieto
di deficit eccessivi) e un meccanismo di coordinamento soft delle
politiche economiche nazionali attraverso un atto di indirizzo annuale.
La
discrezionalità persa dal livello nazionale di governo non è recuperata
da una maggiore capacità d’azione del livello comunitario, che rimane
comunque privo di strumenti. Si registra una perdita secca nella
capacità di governo dell’economia.
Il vero assente è il bilancio.
Studi economici dimostrano come in caso di shock asimmetrici, ovvero di
crisi che colpisse uno Stato o un’area importante del territorio
comunitario, il sistema non disporrebbe di strumenti di correzione. La
Comunità non è in grado con il suo esiguo bilancio di intervenire in
soccorso dello Stato in difficoltà né vi è in Europa una flessibilità
sufficiente, nel mercato del lavoro o nei sistemi fiscali, atta a
supplire al deficit di strumenti di politica economica. La Comunità non
può essere considerata dunque un’area valutaria ottimale.
Le
prospettive 2007-2013, recentemente approvate, registrano purtroppo, a
fronte di un’Europa allargata e mediamente più povera, una contrazione
del bilancio, che si attesta all’1,045% del PIL - seppure l’assetto
della spesa sembri migliorato - a fronte di bilanci nazionali che
sfiorano talora, come nel nostro Paese, il 50% del PIL.
La
riallocazione delle risorse è tutta nazionale e conseguentemente solo lo
Stato può decidere priorità e modalità di intervento, anche in caso di
crisi. Può fare cioè la politica economica. Alla Comunità non resta che
potenziare gli strumenti di indirizzo.
Lo fa, in prima battuta,
affiancando alle linee guida annuali di politica economica – istituite
dal Trattato di Maastricht con l’art. 99 – gli Orientamenti in materia
di occupazione, istituiti dal Trattato di Amsterdam, che prevede
all’art. 128 un nuovo atto di indirizzo annuale.
Persegue nella
stessa strada con la creazione di meccanismi non istituzionalizzati
lanciati da successivi Consigli europei: i processi di Cardiff (1998)
per migliorare l’efficienza del mercato interno; quello di Colonia
(1999) per sviluppare un dialogo macroeconomico tra le parti sociali;
quello di Lisbona (2000) per mettere a punto un meccanismo di
coordinamento delle economie di carattere orizzontale, il cosiddetto
“metodo aperto di coordinamento”. Nel 2005 tutta l’esperienza così
maturata viene incorporata in una riforma del primo di questi strumenti:
le Linee guida di politica economica, che oggi accolgono al proprio
interno contenuti e metodi del dialogo macroeconomico portato avanti in
sede di vertice attraverso documenti finora separati ( sono i cosiddetti
“orientamenti integrati”, di cui danno conto le Conclusioni del
Consiglio europeo di Bruxelles del 22-23 marzo 2005, p.12).
Infine,
il progetto di Costituzione. Le due lacune rese evidenti
dall’introduzione della moneta unica: la carenza di proiezione esterna
della zona euro e il deficit di governance economica e sociale cercano
una risposta in sede di negoziati. Solo nel primo caso vi è un esito
positivo, con la stesura di un articolo, il II-196, che, rimpiazzando
l’attuale art. 111, sembra forzare la mano agli Stati reticenti
imponendo l’adozione di posizioni comuni e abilitando il Consiglio a
decidere in merito alla rappresentanza unificata.
L’attuale
situazione di incertezza riguardo alle sorti del progetto di
Trattato-Costituzione, e l’eventualità che solo parti di esso entrino in
vigore, porta a chiedersi se, e in che modo, tali lacune potranno
essere colmate.
Per quanto attiene alla proiezione esterna della zona
euro, la sua concretizzazione sembra inscriversi in un processo
ineluttabile che, fintanto che non arrivi a compimento, impone un prezzo
da pagare nella incapacità per l’Europa di trarre tutti i vantaggi
politici che comporta l’emissione della seconda moneta di riserva del
pianeta. A spingere verso una soluzione favorevole sarà il dibattito sul
riequilibrio condotto dai PVS nelle organizzazioni di Bretton Woods.
Un’eventuale seggio unico per i Paesi comunitari nel FMI consentirebbe
infatti di liberare spazi importanti da distribuire tra gli altri Stati
membri.
Per quanto attiene alla gestione economica, merita di essere
segnalata la proposta, avanzata da Jean Victor Louis, di un protocollo
sulla governance economica e sociale, la cui redazione sarebbe affidata a
un Comitato di esperti.
Tale documento dovrebbe essere allegato al
nuovo Trattato – quale che sia – arricchendolo di risposte concrete ad
esigenze della popolazione in merito alla lotta alla disoccupazione
all’esclusione sociale e alla gestione delle crisi e varrebbe, ad avviso
del suo promotore, a rispondere ad una serie di critiche che hanno in
parte pesato sulla bocciatura referendaria (J.V. Louis L’Europe. Sortir
du doute, Bruxelles, Bruylant, 2006).
Rimane fuori dal dibattito
sulla riforma dei Trattati il tema spinoso dell’entità del bilancio
comunitario, che dovrebbe accompagnarsi a un ripensamento complessivo
del sistema delle risorse proprie. Negli anni, infatti la struttura
delle entrate comunitarie si è profondamente modificata, a causa del
progressivo abbassamento dei dazi doganali, e il trasferimento su PIL da
parte degli Stati membri ha acquisito soverchia importanza riducendo di
fatto l’autonomia finanziaria della Comunità.
Non si spiega più, e
non si riesce ancora ad eliminare, la famosa “restituzione” al Regno
Unito che risale agli anni Ottanta ed i tempi sono maturi, forse, per
pensare a una vera imposta comunitaria che vada in sottrazione del
gettito nazionale. La materia richiederebbe un negoziato autonomo ai più
alti livelli, fuori dai confini angusti del dibattito periodico sulle
prospettive finanziarie.
Nonostante tali ombre, tuttavia, l’euro in
sé sembra godere buona salute. I meccanismi di central banking sono
ormai collaudati. La moneta europea, nonostante continui a subire la
sorte di capro espiatorio di una politica economica in affanno, sembra
accettata dai cittadini. È oggi, a mio avviso, il segno più tangibile
del processo di integrazione europea e la sua più avanzata
realizzazione. Non ha ancora generato, come ho tentato di dimostrare,
tutte le sue potenzialità come ulteriore fattore di propulsione di
un’integrazione più stretta e più “politica”.