di Ruggiero CAFARI PANICO (Ordinario nell’Università Statale di Milano)
1.
A 50 anni dalla nascita della (allora) CEE è lecito chiedersi se
l’obiettivo della piena realizzazione del mercato interno possa dirsi in
tutto o solo in parte raggiunto. Le mie riflessioni traggono anche
spunto dalla Dichiarazione per l’Europa del Comitato delle regioni, del
23 marzo 2007, dove si pone come obiettivo prioritario proprio il
completamento del mercato interno in una logica di sviluppo sostenibile
ed equità. In questa analisi devo peraltro sottolineare la difficoltà
dovuta alla mancanza di un disegno unitario nel processo attualmente in
corso di consolidamento del mercato interno. Strumento di tale processo è
principalmente la Corte di giustizia che, come avrò modo di precisare,
ha affrontato tutta una serie di questioni ad oggi rinviate o irrisolte o
non del tutto definite sul piano legislativo. Sarebbe tuttavia
riduttivo rappresentare l’attuale momento come una fase di esclusivo
rafforzamento o consolidamento di principi e regole già fissati. In
realtà, la stessa nozione di mercato interno è in pieno mutamento. Il
fenomeno non è tuttavia di immediata evidenza perché, come spesso è
accaduto nella storia delle istituzioni e delle competenze comunitarie,
all’assenza di un preciso progetto e disegno “politico” ha fatto
riscontro l’ampliarsi delle iniziative comunitarie in settori
apparentemente distanti e distinti, ma che per l’intimo legame che li
unisce attendono solo il momento giusto per riunirsi e costituire un
tutt’uno con il mercato interno. Si darebbe così vita, al di là de-gli
ambiti in cui appare ancora oggi frammentata l’azione comunitaria, quale
eredità dei ben noti pilastri di Maastricht, ad un ordinamento interno,
organicamente unitario e sinceramente comunitario; destinato,
quest’ultimo, ad abbracciare tutti i settori della vita del cittadino
europeo, al di là della apparente dicotomia tra ciò che è riconducibile
all’ambito economico e ciò che appartiene invece all’ordinamento civile.
Mi riferisco ovviamente alla progressiva creazione di uno spazio
giudiziario europeo che si fonda su quel principio di reciproca fiducia
(full faith and credit) che rappresenta anche il principio base per la
realizzazione del mercato interno, una volta che si è preso atto della
impossibilità di procedere con una applicazione generale del principio
dell’armonizzazione. Fondati sullo stesso principio, quello della
reciproca fiducia tra gli Stati membri, mercato interno e spazio
giudiziario europeo oggi sono semplicemente giustapposti. È peraltro
evidente che una loro integrazione consentirebbe la creazione di quello
spazio giuridico, non più solo interno o giudiziario, ma europeo tout
court, il cui consolidamento potrebbe rappresentare il vero salto in
avanti. Mi sia perciò consentito di procedere per passi: prima saggiando
il grado di maturità del mercato interno sul piano delle risposte ai
quesiti ancora aperti circa l’esercizio dei diritti attribuiti dalle
libertà fondamentali al cittadino dell’Unione nei riguardi degli
ordinamenti statali, per poi analizzare i progressi compiuti nella
creazione dello spazio giuridico europeo mediante l’utilizzo del
principio del mutuo riconoscimento o piuttosto di quello da esso filiato
del paese di origine.
Al termine di questa ricerca necessariamente
circoscritta ai profili ritenuti più rilevanti, mi sarà possibile
indicare le ragioni per cui pare ancora difficilmente prospettabile la
creazione di un ordinamento giuridico comunitario unico ed integrato, in
una prospettiva che si riferisca non già agli Stati membri, ma ai vari
ambiti in cui l’azione comunitaria, pur con strumenti comuni, opera oggi
in modo diviso e non sufficientemente coordinato.
2. Il
completamento del mercato interno ha significato la graduale estensione
della libertà di circolazione a categorie sempre più ampie di soggetti
sino al definitivo abbandono della originaria connotazione
esclusivamente economica, con il riconoscimento di tale diritto a tutti i
cittadini comunitari in quanto tali. In realtà, quello descritto non è
un semplice fenomeno di allargamento della cerchia dei soggetti che si
possono avvalere di tale libertà, bensì l’espressione dello statuto di
cittadino dell’Unione cui è riconosciuto il diritto pieno e
incondizionato di circolare e soggiornare liberamente. In quest’ottica
la libertà fondamentale di circolazione di cui gode il cittadino, ex
art. 18, par. 1 TCE, è direttamente applicabile e va interpretata
estensivamente, non limitatamente a singole materie e, a maggior
ragione, non con riguardo al solo mercato interno (conclusioni dell’avv.
gen. Kokott per il caso K. Tas-Hagen, del 30 marzo 2006, causa
C-192/05, punto 34).
Per la realizzazione di tale libertà occorre
dunque procedere all’abbattimento delle frontiere interne del mercato
comune mediante il rafforzamento della collaborazione tra gli Stati.
Strumento per conseguire tale risultato è ancora una volta quel
principio del mutuo riconoscimento che, elaborato dalla Corte di
giustizia in vista della realizzazione del mercato unico, si è esteso
alla cooperazione giudiziaria in campo tanto civile quanto penale. In
tale prospettiva si assiste ad un superamento della tradizionale
distinzione fra il mercato comune e lo spazio di libertà, sicurezza e
giustizia creato dal Trattato di Amsterdam. Ma se su quanto ora
osservato si è soffermata l’attenzione della dottrina, non altrettanto
può dirsi per la questione speculare a quella considerata, ovvero il
rapporto tra il nuovo ambito così descritto e le competenze statali. È
infatti inevitabile che l’allargamento della collaborazione fra gli
Stati, per consentire l’esercizio dei diritti connessi alla
cittadinanza, abbia come conseguenza una riduzione dello spazio
riservato agli Stati stessi. In particolare, la piena operatività del
principio del reciproco riconoscimento, che rappresenta lo strumento di
cui si avvale il cittadino per ottenere che in tutti i paesi in cui
esercita la libertà di circolazione gli vengano attribuiti i medesimi
diritti di cui gode nel paese di appartenenza, incontra significative
resistenze. Due, in particolare, sono gli istituti di cui gli Stati
possono avvalersi per limitare l’esercizio dei diritti in questione:
quello dell’abuso del diritto comunitario e quello dell’esclusione delle
situazioni puramente interne. Non ritengo del resto casuale, ma
significativo dell’attuale difficoltà di trovare oggi il confine fra
l’ambito di esercizio delle libertà comunitarie e la competenza
residuale degli Stati, il fatto che la giurisprudenza della Corte appaia
sì cospicua, ma non altrettanto puntuale, tanto da dare l’impressione
che essa sia ancora alla ricerca di un punto di equilibrio fra le
diverse esigenze.
Prendiamo in considerazione la nozione di
situazioni puramente interne. Già nella sentenza Keck e Mithouard, del
24 no-vembre 1993 (cause riunite C-267 e C-268/91) la Corte aveva posto
come requisito perché essa potesse giudicare sulla compatibilità di
norme interne con il diritto comunitario che si trattasse di fattispecie
idonee a influenzare gli scambi intracomunitari. Sarebbe stato dunque
lecito attendersi che la Corte estendesse tale principio anche agli
altri settori in cui vengono esercitate le competenze comunitarie. Così
del resto è accaduto in numerosi casi tra cui basti ricordare il caso
Ri.SAN (sentenza del 9 settembre 1999, causa C-108/98). A un certo punto
la Corte pare però essersi ricreduta preoccupandosi più di fornire una
risposta alla astratta compatibilità con il diritto comunitario della
disciplina nazionale sottoposta alla sua attenzione che di chiarire
esattamente quali siano i limiti della applicabilità in concreto di tale
diritto, sulla base di una giurisprudenza che, come osservato dal Prof.
Tesauro (Diritto comunitario, 4° ed., Padova, 2005, p. 318), non può
non destare perplessità. Un tipico esempio di questo modo di procedere
lo troviamo nella recente sentenza sui Centri d’assistenza fiscale, del
30 marzo 2006 (causa C-451/03), dove, di fronte all’obiezione italiana
che si trattava di una situazione puramente interna, la Corte, ancora
una volta, ha evitato di affrontare direttamente la questione della
applicazione degli articoli 43 e 49 TCE alle situazioni interne,
ponendosi invece prima sul piano della ricevibilità della questione
pregiudiziale e fornendo poi comunque la propria interpretazione, in
quanto essa potrebbe essere utile ai giudizi nazionali nella misura in
cui il diritto nazionale imponga di far beneficiare i cittadini italiani
degli stessi diritti dei cittadini degli altri Stati membri. In
definitiva, sul piano interpretativo, il problema diviene accertare se
il cittadino dell’Unione venga comunque limitato nell’esercizio delle
libertà fondamentali, in primis quella di circolazione, a prescindere da
ogni sua ulteriore qualificazione, da norme che, di per sé,
riguarderebbero situazioni puramente interne.
In realtà, la
cittadinanza dell’Unione se non serve ad estendere le competenze, di
certo finisce per ampliare i diritti di cui godono i cittadini
nell’esercizio delle libertà di circolazione e da questo punto di vista
la posizione assunta dalla Corte non può che favorire tale ampliamento.
La
compressione che ne deriva dei diritti residuali dello Stato è
altrettanto evidente, ma forse non ad oggi apprezzata nella pienezza
delle sue conseguenze. Un uso così ampio dei diritti connessi alla
cittadinanza finisce infatti per far sì che diviene ben difficile
immaginare settori che possano sottrarsi alla valutazione di conformità
col diritto comunitario. È vero che resta poi al giudice nazionale
stabilire se effettivamente la fattispecie valutata in astratto, con un
giudizio di potenziale contrarietà, ha una rilevanza comunitaria, ma è
altrettanto evidente, da un lato, che un criterio di rilevanza anche
solo potenziale rende pressoché impossibile escludere che possa esservi
un qualche, anche minimo, rilievo comunitario; dall’altro, che il
giudizio della Corte sulla compatibilità, seppur solo in via teorica,
non può che influenzare di fatto ogni successivo giudizio.
Nella
sentenza K. Tas-Hagen del 26 ottobre 2006 (causa C-192/05) la necessità
di un collegamento con una materia di competenza comunitaria, perché
possa essere invocato anche nei confronti del proprio Stato di
appartenenza un diritto connesso allo stato di cittadino, è stata
espressamente presa in considerazione. La conclusione è stata che tale
collegamento potrebbe costituire un «ulteriore elemento» in sede di
valutazione dei singoli casi, ma non una condizione per l’applicazione
dell’art. 18 TCE in tema di diritti della cittadinanza. Se a ciò si
aggiunge che la libertà di circolazione, che ne è corollario, va ben al
di là della relazione con un’attività economica o con la creazione del
mercato interno, si comprende come il limite rappresentato dalle
situazioni puramente interne sia destinato a ridursi grandemente, se non
addirittura a scomparire: ogni qual volta l’esercizio di un diritto
riconosciuto dall’ordinamento comunitario incida (in qualche misura)
sull’ottenimento di una prestazione prevista dal diritto interno, la
situazione in questione non può più essere considerata puramente
interna. E ciò, vorrei sottolineare, non per il solo ambito della
circolazione nel mercato interno, ma per tutte le situazioni collegate
allo status di cittadino europeo. Seguendo tale ragionamento, si è
ammessa la presenza di un elemento transfrontaliero nel fatto che i
cittadini olandesi che chiedevano al proprio Stato il riconoscimento del
diritto ad una indennità prevista a favore di vittime di guerra
risiedevano in un altro Stato (Spagna) avendo esercitato la libertà di
circolazione ex art. 18 TCE. La concessione dell’indennità era stata
negata perché al momento della presentazione della domanda essi non
erano residenti nei Paesi Bassi, bensì in Spagna. La Corte ha ritenuto
che una restrizione di tal genere, idonea di per sé a dissuadere
dall’esercitare la libertà di circolare e di soggiornare fuori dal paese
di origine (punto 32), non si potesse giustificare, dal punto di vista
del diritto comunitario, sulla base di considerazioni oggettive di
interesse generale, perché non proporzionale allo scopo perseguito
(punto 39). Se per rendere la fattispecie di rilevanza comunitaria basta
“circolare”, senza ulteriore qualificazione economica, ma solo
avvalendosi del diritto connesso alla cittadinanza dell’Unione, è del
tutto evidente che l’ambito di incidenza del diritto comunitario e dei
suoi principi va oltre quello che è il suo campo di applicazione ratione
materiae, ma invade direttamente lo spazio in cui gli Stati esercitano
le proprie competenze, toccando, in particolare, le prestazioni che non
sono di per sé disciplinate dal diritto comunitario. Per dirla in altro
modo, gli Stati rimangono liberi di regolare situazioni che abbiano un
collegamento esclusivo con il loro ordinamento, ma nel far questo devono
sempre e comunque rispettare i limiti imposti dai principi generali del
diritto comunitario (punto 36). Non a caso è stato affermato dall’avv.
gen. Kokott (nelle conclusioni relative alla causa K. Tas Hagen cit.,
punto 37) che le libertà fondamentali devono essere esercitate anche
dove il diritto comunitario non prevede ancora una disciplina e gli
Stati membri conservano le rispettive competenze: così è avvenuto, ad
esempio, nei settori della fiscalità diretta, del diritto e della
procedura penale e della disciplina dei regimi di sicurezza sociale. In
modo analogo lo stesso è avvenuto per il diritto al nome.
Ma non è
questo l’unico profilo sotto il quale la nozione tradizionale di mercato
interno appare ormai inadeguata. Se quello ora descritto è un
allargamento realizzatosi sotto il profilo soggettivo, ad esso si è
aggiunto, sul piano oggettivo, un ulteriore fenomeno destinato anch’esso
a espandere i confini del mercato interno. Mi riferisco all’utilizzo
sempre più ampio del ricorso al principio del mutuo riconoscimento e/o
del paese di origine. Il collegamento fra libertà fondamentali e mutuo
riconoscimento è costituito dal fatto che le prime implicano obblighi
positivi, il cui contenuto è costituito proprio dalla giurisprudenza
della Corte relativa al secondo (avv. gen. Stix-Hackl, conclusioni per
il caso Aziende Metano, del 12 aprile 2005, cau-sa C-231/03, punto 49).
Ma quale sia l’esatto confine non è chiaro.
Se la cittadinanza è il
grimaldello con cui, attraverso l’esercizio delle libertà fondamentali,
viene allargato l’ambito di rilevanza comunitaria e quindi di esercizio
dei diritti di origine comunitaria nei confronti anche dello Stato di
appartenenza, il mutuo riconoscimento è invece il mezzo con cui il
fascio di tali diritti che costituiscono lo status del cittadino vengono
fatti valere nei confronti di tutti gli Stati. L’effetto è quindi
duplice: di allargamento dello spazio comunitario nei riguardi degli
Stati e di ampliamento della protezione dei diritti esercitati dal
cittadino entro tale spazio nei riguardi degli stessi Stati, in un
difficile equilibrio tra principio di attribuzione e competenza
residuale statale.
L’effetto però non si esaurisce in quanto ora
osservato. Il ricorso, già ricordato, al principio del mutuo
riconoscimento in ambiti di per sé tendenzialmente estranei al mercato
interno finisce inevitabilmente per rendere sempre più complementari tra
loro lo stesso mercato interno e lo spazio giudiziario europeo, fino a
costituire un nuovo spazio unico “tout court” in cui l’eredità dei
pilastri viene finalmente meno.
Se queste sono le regole della
partita in corso, l’esito non è scontato in quanto l’ambito di
competenza residuale degli Stati, rappresentato dalle situazioni
puramente interne, resta ancora incerto.
Lo stesso vale per la
nozione di abuso del diritto comunitario di cui gli Stati si avvalgono
per limitare l’esercizio della libertà di circolazione. In merito
l’allora avv. gen. Tesauro osservava nelle conclusioni relative al caso
Kefalas, del 4 febbraio 1998 (causa C-367/96), che «ogni ordinamento che
aspiri ad un minimo di completezza deve contenere delle norme, per così
dire, di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso
attribuiti siano esercitati in maniera abusiva, eccessiva o distorta»
(punto 24). A tale esigenza, aggiungeva Tesauro, non è estraneo
l’ordinamento comunitario. È peraltro evidente che la stessa esigenza
“difensiva” anima gli Stati quando si preoccupano del fatto che la
disposizione comunitaria possa essere legittimamente invocata per
assicurare benefici manifestamente estranei ai suoi scopi ed ai suoi
obiettivi.
Al riguardo va rilevato come numerose pronunce siano
relative alla materia fiscale; esse perciò non paiono del tutto idonee a
fissare i principi generali. In esse è costante, infatti, il
riferimento alla necessità che l’obiettivo perseguito non sia privo di
una effettività economica (CGCE, del 12 settembre 2006, causa C-196/04,
Cadbury Schweppes, punto 55). Ma se in materia fiscale tale indagine può
apparire relativamente agevole, l’analisi diviene molto più complessa
quando ci si muove nell’ambito, ad esempio, del diritto di stabilimento o
della libera prestazione di servizi, e si tratti, ad esempio, di
appalti e di attività finanziarie. Il carattere puramente artificioso
del comportamento posto in essere al fine di escludere la legislazione
dello Stato interessato è in tali circostanze oltremodo più difficile da
accertare, anche solo perché il concetto di «abuso del diritto» o di
«frode alla legge» assume significati ben diversi in campo civile e
fiscale.
Non a caso, nelle conclusioni presentate il 29 marzo 2007
(causa C-298/05, Columbus Container), l’avv. gen. Mengozzi ha dovuto
confrontarsi con le lagnanze tedesche sul fatto che la giurisprudenza
della Corte pare troppo restrittiva e quindi con l’invito ad ampliare il
diritto degli Stati membri di contrastare le costruzioni di puro
artificio ponendo, ad esempio, più rigorosi criteri circa il necessario
legame effettivo e durevole che deve comunque esistere (per godere in
quel caso di vantaggi fiscali) tra una determinata struttura
organizzativa e lo Stato in questione. L’avv. gen., rifacendosi alla
giurisprudenza Cadbury Schweppes, ha contestato tale affermazione
ricordando come una misura fiscale che limiti l’esercizio di una libertà
fondamentale può essere giustificata solo quando abbia l’obiettivo
specifico di escludere da un vantaggio fiscale le costruzioni puramente
artificiose, il cui scopo sia quello di eludere la legge dello Stato
membro di cui si tratta (punto 172).
Come peraltro osservato
poc’anzi, tale giurisprudenza può risultare convincente in materia
fiscale, laddove l’esistenza dell’elemento soggettivo e soprattutto di
quello oggettivo (accertabile, in particolare, in termini di locali,
personale e attrezzature), relativo alla mancanza del raggiungimento
dell’obiettivo dell’integrazione nella vita economica dello Stato
ospitante, pare più agevole da determinare di quanto non lo sia con
riguardo all’esercizio di altri diritti per i quali opera il mutuo
riconoscimento. In altre parole, non è per nulla chiaro quando
l’esercizio di diritti riconosciuti in base al principio di reciproca
fiducia che deve animare gli Stati membri è frutto in realtà di un
utilizzo improprio, artificioso, delle possibilità offerte dal diritto
comunitario. Infatti la valutazione se il diritto invocato rientri in
quello che l’avv. gen. Poiares Maduro, nelle conclusioni per il caso
Halifax, del 7 aprile 2005 (causa C-255/02, punto 69) chiama «ambito
teleologico» della norma in esame, secondo le indicazioni fornite dalla
Corte nella sentenza Emsland Stärke (14 dicembre 2000, causa C-110/99),
non è affatto agevole.
La libertà di stabilimento mira a perpetrare
l’esercizio di un’attività economica reale ed effettiva nello Stato
agente. È dunque l’esercizio di un’attività economica in detto Stato la
ragion d’essere della libertà di stabilimento. Se lo scopo perseguito
dalla libertà di stabilimento è raggiunto, le ragioni per cui si è
voluto esercitare tale libertà non possono influire sulla tutela
riconosciuta dal Trattato (conclusioni avv. gen. Leger per il caso
Cadbury Schweppes, del 2 maggio 2006, causa C-196/04).
Ne consegue
che, come stabilito nella sentenza Centros, del 9 marzo 1999 (causa
C-212/97), e poi confermato nella decisione del caso Inspire Art, del 30
settembre 2003 (causa C-167/01), il fatto che a spingere i soci a
decidere di costituire la loro società in uno Stato diverso fosse quello
di eludere la normativa sulla creazione di un SARS, non è sufficiente
ad impedire l’esercizio dei diritti attribuiti dall’art. 49 TCE, giacché
il diritto di costituzione di una società è inerente all’esercizio del
diritto di stabilimento. Fra le finalità dei soci e quella della libera
circolazione è destinata a prevalere quest’ultima (punto 46 delle
conclusioni del 2 maggio 2006 cit.).
Lo stesso avv. gen. Leger
ammette tuttavia che la prevalenza della libertà di stabilimento sulle
esigenze dei singoli Stati, che vengono messe così in concorrenza, non è
priva di difficoltà, ma aggiunge che la soluzione deve essere ricercata
sul piano politico (punto 55).
Del resto, l’avv. gen. Colomer
(conclusioni per il caso Axel Kittel, del 14 marzo 2006, cause riunite
C-439/04 e C-440/04), avendo riguardo peraltro alla materia del regime
comune dell’IVA, non ha avuto esitazione a riconoscere che la difficoltà
non risiede nel far valere l’abuso del diritto bensì nel fissare i
relativi criteri di accertamento.
La certezza del diritto e il
principio del legittimo affidamento, che ne è espressione, richiedono
che i cittadini conoscano anticipatamente e con esattezza la portata dei
loro obblighi, stante la loro libertà di strutturare i loro negozi
optando per il regime fiscale, ma non solo, più favorevole (punto 54).
In
definitiva, il semplice fatto di approfittare delle opportunità offerte
dal diritto comunitario non può fondare il sospetto di un abuso (avv.
gen. Kokott, conclusioni per il caso Kofoed, dell’8 febbraio 2007, causa
C-321/05,). Tuttavia, se l’obiettivo principale (o uno degli obiettivi
principali) è la frode o l’evasione fiscale, si può ritenere che
sussistano le condizioni per sostenere la non applicazione del diritto
comunitario: in particolare, quando la transazione non sia qualificata
da valide ragioni economiche (punto 59).
Per compiere tale indagine
potranno essere utili al giudice a quo i principi di diritto interno in
tema di elusione fiscale. Col che il quadro diviene ancora più
complesso, stante l’impostazione del tutto restrittiva di ordinamenti
come il nostro in materia di elusione.
Se, come affermato dall’avv.
gen. Tesauro nelle conclusioni per la causa Chen, del 18 maggio 2004
(causa C-200/02), il parametro di riferimento è dunque essenzialmente se
vi sia stato o meno un travisamento delle finalità e degli obiettivi
della norma comunitaria che «attribuisce il diritto» (punto 116) di cui
si discute, la questione sul piano concreto rimane per lo meno aperta.
3.
Il principio del mutuo riconoscimento e ancor più quello del paese di
origine, che da esso trae origine ma se ne distacca significativamente
sul piano del contenuto, di sicuro consentirebbero, pur nel rispetto
formale del principio di attribuzione, di pervenire ad un assetto
coordinato dei rapporti non solo economici, ma anche civili che vedono
come protagonisti i cittadini dell’Unione.
La reazione alla proposta
della Commissione di direttiva Bolkenstein, in apparenza spropositata e
non giustificata dalla posta in gioco, è però il segnale di come,
reagendo forse istintivamente, coloro che si oppongono ad un salto nel
processo di costruzione europea abbiano inteso impedire l’affermazione
di un principio, quello del paese d’origine, la cui affermazione nel
settore di servizi avrebbe potuto, a loro avviso, rappresentare il
cavallo di Troia per una disciplina nuova e più “comune” in altri
settori.
Si potrebbe discutere all’infinito della democraticità di
un metodo che antepone, come nel caso comunitario, i fatti alle norme,
che spesso da piccole cose fa discendere ben più rilevanti conseguenze,
che lascia ai giudici il compito di supplire alle carenze legislative.
Ciò che conta è che oggi è in corso una partita in cui la posta in gioco
è il superamento del mercato interno per pervenire ad un vero
ordinamento unico di modello ormai decisamente federale. Players di
questa partita sono, da un lato, il principio del mutuo riconoscimento o
meglio del paese di origine e, dall’altro, un insieme di ostacoli
frapposti dagli Stati, a costituire una sorta di limite all’ingerenza
comunitaria, formato oltre che dalle norme ritenute fondamentali dai
singoli ordinamenti – ostacolo ancora esistente ma progressivamente in
via di sgretolamento, come dimostra la vicenda della nozione di
matrimonio nel nuovo regolamento Bruxelles II –, dalle non meno
insidiose nozioni di situazioni puramente interne e di abuso del diritto
comunitario.
In particolare, queste ultime due, per il loro
carattere ancora impreciso, la cui definizione è tuttora oggetto di
discussione fra la Corte e gli Stati, potrebbero frapporsi al
realizzarsi di quella concorrenza fra gli ordinamenti che costituisce in
realtà una corsa al rialzo, se considerata dal punto di vista della
garanzia della circolazione di diritti e delle situazioni giuridiche che
ogni cittadino porta con sé, sia sul piano economico, sia su quello dei
diritti civili e della persona in particolare. L’esercizio dei diritti
connessi alla cittadinanza europea, destinata a realizzarsi con il pieno
esercizio delle libertà fondamentali, non può essere limitato a seconda
dello specifico settore riguardato.
Le ragioni settoriali e molto
particolari, legate ai timori vuoi di una corsa al ribasso nel livello
di protezione vuoi di una integrazione di valori provenienti da
ordinamenti con diversi principi sociali, non devono poi far dimenticare
che l’attuale frammentazione nell’applicazione ai vari ambiti di
competenza comunitaria di principi quali quello del mutuo riconoscimento
e del paese di origine costituirà il vero ostacolo, sul piano concreto,
a ulteriori passi sul cammino della costruzione di un sistema
comunitario più unitario di quello attuale.
La speranza è che ancora
una volta nell’assenza, nel silenzio o addirittura a fronte
dell’ostilità degli Stati (in parte), sappia la Corte di giustizia
ritrovare il bandolo della matassa e sbrogliare una situazione che, fra
pause e momenti di riflessione che durano anche da troppo tempo, rischia
di farsi imbarazzante per chi, come me, ritiene che il cammino da
percorrere sia ancora lungo e che non sia perciò più il momento di
indugiare.
Per rispondere dunque al quesito iniziale, il mercato
interno non può dirsi completamente realizzato per lo meno nella nuova
accezione che esso ha acquisito, ben più ampia ed eterogenea di quella
iniziale.
Esso infatti si è ormai allargato ad altri ambiti e
settori mediante l’utilizzo, con gli opportuni adattamenti, degli
strumenti che la giurisprudenza della Corte ha posto a disposizione del
diritto comunitario. Una volta completato tale processo, si potrà
parlare propriamente di uno spazio giuridico interno, che comprende
tutte i diversi settori di operatività dello stesso diritto comunitario.
I
primi passi in questa direzione sono stati compiuti, ma per procedere
oltre occorre il supporto di tutti coloro che ritengono che quello di
oggi non sia un punto di arrivo della costruzione europea, ma un
passaggio importante, anche se pieno di insidie, e come tale da superare
quanto prima, possibilmente entro quel 2009 indicato al Consiglio
europeo di Berlino come termine ultimo per la realizzazione
dell’obiettivo del consolidamento dell’Unione.