di Donatella DEL VESCOVO
D’ora
in poi in Europa i danni all’ambiente e i costi di disinfestazione
dovranno essere pagati dalle persone o dalle imprese che inquinano.
È
questo il principio di fondo della nuova direttiva 2004/35 riguardante
la responsabilità ambientale (pubblicata in GUUE n. 143 del 30 aprile
2004).
La direttiva istituisce un regime unico per prevenire e
risarcire il danno ambientale e deve essere recepita entro il 30 aprile
2007, e nello stesso tempo rappresenta un’occasione imperdibile per il
Governo italiano per armonizzare prima di questa data la disciplina
sulla responsabilità civile da danno ambientale di cui alla legge 349/86
e quella di cui all’art.17, d.lgs. 22/97 sulle bonifiche.
L’occasione
è data dal Testo unico sul danno, inserito come argomento nel Ddl di
delega sui testi unici ambientali, in corso di approvazione al
Parlamento.
Il 30 aprile 2007 rappresenta la soglia per la
irretroattività della disciplina, laddove l’articolo 17 stabilisce che
la direttiva non si applica a un danno verificatosi prima di tale data, o
che, pur verificatosi dopo il 30 aprile 2007, derivi da un’attività
posta in essere e terminata prima.
La direttiva definisce il danno
ambientale con riferimento solo ad alcune matrici che compongono
l’ambiente (specie e habitat naturali protetti, acque, terreni) e lo fa
in termini quantitativi (“qualsiasi danno alle specie e agli habitat
naturali protetti, alle acque e al terreno che determini un mutamento
negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento
misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi
direttamente o indirettamente”).
In questo modo si differenzia
profondamente dalla definizione italiana di cui all’art.18, legge 349/86
(“qualunque fatto doloso o colposo in violazione di legge o di
provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, a
esso arrecando danno, deteriorandolo o distruggendolo tutto o in parte,
obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”).
Non
rientrano nel raggio d’azione della direttiva gli effetti della
tossicità di prodotti o di emissioni nei confronti delle persone, già
disciplinati da tutte le legislazioni europee.
Sono invece
contemplati i danni provocati da inquinamento delle acque interne
europee, contaminazione dei terreni o riduzione della biodiversità e che
colpiscono specie naturali protette dalle direttive habitat e sugli
uccelli (direttive 92/43 e 79/409), corsi d’acqua contemplati dalla
direttiva quadro in materia (2000/60), o inquinino terreni, causando
rischi significativi alla salute umana.
La direttiva ha alcuni
limiti: non si applica alle lesioni personali, al danno alla proprietà
privata o alle perdite economiche; il danno prodotto “indirettamente”
può dare luogo al risarcimento solo in presenza di una probatio
diabolica circa il nesso causale tra il danno e le attività dei singoli
operatori (art.4, punto 5).
Ecco che quindi, restano irrisolti i
problemi relativi all’individuazione dell’inquinatore e la sua
insolvenza, difficoltà di avere un danno concreto e quantificabile, e
prova del nesso causale tra evento e agente.
La responsabilità si
delinea come oggettiva in relazione al danno ad acque e terreni, mentre
viene posta in dipendenza dell’elemento psicologico (dolo o colpa) per
il danno alla specie e agli habitat. Inoltre, mentre è previsto che il
danno risarcibile ad acque e terreni possa derivare solo dalle 12
attività professionali elencate nell’allegato III (la normativa elenca
nell’Allegato una serie di attività potenzialmente rischiose e
perseguibili, come quelle che comportano il rilascio di metalli pesanti o
di alcune sostanze chimiche nell’acqua e nell’aria, impianti di
incenerimento e discariche), il danno alle specie e agli habitat,
invece, prescinde da ciò.
Sotto il profilo della legittimazione
attiva, la direttiva espressamente non conferisce ai privati un diritto
ad essere indennizzati a seguito di un danno ambientale o a ad una sua
minaccia imminente, mentre la riconosce alle organizzazioni non
governative, poiché l’ambiente è “un interesse diffuso”.
La direttiva
muove, ovviamente, dal principio comunitario “chi inquina paga”,
prevenire e riparare, dunque, sono le parole d’ordine della direttiva.
L’operatore,
inteso dalla direttiva come il soggetto finanziariamente responsabile
delle azioni di prevenzione e riparazione, è non solo il soggetto
privato ma anche quello pubblico che esercita o controlla un’attività
professionale.
I costi di tali azioni non sono a carico
dell’operatore se può provare che il danno ambientale (o la sua
minaccia) è stato causato da un terzo o si è verificato nonostante
l’esistenza di opportune misure di sicurezza; oppure tale danno è
conseguenza dell’osservanza di un ordine impartito dalla pubblica
amministrazione.
Sarà una facoltà (e non un obbligo) degli Stati
membri consentire che l’operatore non sia costretto a sostenere i costi
di prevenzione e riparazione se dimostra che non è ravvisabile a suo
carico alcun comportamento doloso o colposo e che il danno ambientale è
stato causato in dipendenza di un evento a seguito di apposita
autorizzazione oppure da cognizioni tecniche all’epoca dell’evento non
conoscibili. Tale possibilità di esclusione della responsabilità è
fondamentale, soprattutto se parametrata con quella concepita in Italia
sulle bonifiche (DM 471/99) dove si prescinde dal fatto che un soggetto
abbia inquinato in osservanza dei limiti imposti da un’autorizzazione.
Tra le questioni più dibattute vi è stato il regime di garanzie finanziarie da mettere in gioco per i risarcimenti.
Nella
proposta originaria, i fondi dovevano essere accantonati
obbligatoriamente a livello statale, utilizzando i proventi di polizze
d’assicurazione da parte di chi svolge attività pericolose per
l’ambiente.
Il testo finale prevede, invece, che un sistema di questo
tipo possa essere attuato solo su base volontaria. Spetterà poi alla
Commissione, sei anni dopo l’entrata in vigore della direttiva,
considerare l’eventuale necessità di passare gradualmente a forme di
assicurazione obbligatoria, oltre all’opportunità di un tetto
finanziario per la responsabilità ambientale e di esenzioni per le
attività a basso rischio.
La direttiva prevede anche che gli Stati
membri possano esentare dai risarcimenti ambientali le imprese che
abbiano agito ottenendo regolari permessi e in accordo con la
legislazione in vigore e non perseguire chi ha agito in accordo con le
conoscenze scientifiche del momento (ovvero che non sia punibile il
danno all’ambiente provocato da una sostanza, la cui pericolosità sia
scoperta solo a posteriori).
Tuttavia il giudizio su questa direttiva
non è molto positivo proprio per l’introduzione di alcuni emendamenti
sostenuti dal mondo industriale, che hanno naturalmente aumentato i
margini di discrezionalità dei governi nazionali.
Senza un regime
obbligatorio di assicurazione e dando la possibilità di concedere
deroghe ad attività pericolose, che sono già tutte in pratica soggette
ad autorizzazione, è rimasto ben poco di nuovo nel regime di
responsabilità ambientale.